L’atleta sotto lo sforzo dell’allenamento o di una gara, tende naturalmente a parlare a sé stesso e ad “intrattenersi” in un dialogo interno.

È davvero difficile, forse impossibile, fermare la mente, un pensiero conduce ad un altro e poi ad un altro ancora. Molti studi neuro-scientifici mostrano come questo pensare e parlarsi addosso abbia un effetto negativo sulla performance.

Una mente non allenata è altamente suscettibile ad eventi esterni e la reazione tipica è il chiacchiericcio interno. Come afferma Gallwey nel suo libro “Il gioco interiore del tennis”, il gioco si svolge nella mente del giocatore, ed è una partita contro alcuni ostacoli, quali ad esempio cali di concentrazione, nervosismo, dubbio e disapprovazione.

In sostanza, è la partita che si gioca per superare le abitudini della mente che impediscono di raggiungere una performance eccellente.

L’abilità più importante da imparare è l’arte di abbandonare l’inclinazione, insita in ognuno di noi, di giudicare noi stessi o la nostra performance come buona o cattiva, giusta o sbagliata. Quando disimpariamo a giudicarci, possiamo giocare in modo spontaneo e focalizzato. Perché è proprio l’atto di giudicare che induce a pensare.

Facciamo un colpo e siamo immediatamente spinti a valutare se è giusto o sbagliato, e se è sbagliato cominciamo a pensare che cosa c’è stato di sbagliato e ci diciamo come correggerlo. Ci sforziamo e ci diamo indicazioni mentre lo facciamo. Lo stesso vale se consideriamo giusto un colpo, poiché ci sforziamo di replicarlo. Poi ritorniamo di nuovo a giudicare, finché tali giudizi diventano profezie che si auto avverano, messaggi che ripetuti di continuo, si sono trasformati in aspettative, o talvolta perfino in convinzioni su sé stessi.

Sollecitando costantemente la mente che non è mai quieta, il corpo di conseguenza è teso, si sforza e si irrigidisce.

È infatti dimostrato come la mente influisca sul corpo e viceversa tramite un complesso sistema neurofisiologico di feedback.

Un pensiero attiva una sequenza di segnali nel corpo che, attraverso il sistema nervoso, arrivano direttamente al corpo influenzando direttamente la prestazione fisiologica. Un pensiero negativo, la paura, l’ansia, l’intensità dello sforzo, percepire l’avversario che si fa sentire, non riuscire a portare a termine un colpo con successo…tutto questo incide a livello mentale creando una sorta di blocco che limita l’utilizzo massimo del potenziale.

Avere una maggiore consapevolezza di questi processi, aiuta a sviluppare delle strategie per dissiparli appena si presentano o addirittura prevenirli, con un conseguente miglioramento della prestazione.

Per questo motivo percorsi di Mindfulness aiutano a ridurre notevolmente la propensione al dialogo interno incontrollato, il cui effetto ultimo è sostanzialmente di sottrarre risorse metaboliche, aumentare lo stress e distrarre dall’obiettivo.

Analogamente a quanto diceva Gallwey anche la Mindfulness mira ad una performance spontanea che si realizza solo quando la mente è calma e sembra un tutt’uno col corpo, che a sua volta trova dei sorprendenti modi per continuare a superare i propri limiti. C’è un processo molto più naturale ed efficace per imparare a fare ogni cosa. È simile a quello che tutti abbiamo utilizzato quando eravamo bambini, ma che poi abbiamo dimenticato crescendo.

Utilizza le capacità intuitive della mente e degli emisferi destro e sinistro del cervello, processo che già conosciamo; dobbiamo solo disimparare le abitudini che interferiscono con esso, per poi lasciare che accada.

La continua attività mentale che produce pensieri, l’ego della mente, interferiscono insistentemente durante una performance.

Quando un atleta è “caldo” non pensa a come, quando o dove colpire una palla. Non si sforza e dopo il colpo o il gesto non pensa a quanto il contatto con essa ad esempio sia stato buono o cattivo. Potrà esserci consapevolezza della visione, del suono e del feeling della palla, forse anche dell’aspetto tattile, ma il giocatore si limita a sapere senza pensare a quel che deve fare. Un noto maestro Zen, D.T. Suzuki, descrive gli effetti dell’ego sul tiro con l’arco nella prefazione a “Lo Zen e il tiro con l’arco”:

“Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti, l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero… La freccia è scoccata, ma non vola dritta al bersaglio, anche il bersaglio non è là dove deve stare. L’uomo è un essere pensante, ma le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa. Dobbiamo ridiventare “come bambini”.

Forse per questo motivo si dice che la musica, la poesia, l’arte nascono dalle calme profondità dell’inconscio e hanno origine oltre i pensieri. Lo stesso vale per i grandi risultati sportivi, arrivano quando la mente è ferma come un sasso.

Maslow (psicologo umanista) ha chiamato tali momenti “esperienza culmine”, dove le persone riportano alcune delle seguenti descrizioni: si sentono un tutt’uno con l’esperienza, si sentono integrate, si sentono al culmine delle loro potenzialità, senza sforzo, liberi da ogni blocco, inibizione, paura, dubbio, controllo, autocritica, freno… si limitano ad essere. Nel corso di tali momenti la mente non agisce come un’entità separata che ci dice cosa dovremmo o non dovremmo fare o che critica il modo in cui lo facciamo.

La mente è calma, siamo una cosa “unica”, e l’azione fluisce libera come un fiume.

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